INTERVISTA A RACHELE MOSCATELLI
di Vera Canevazzi e Caterina Frulloni
 
 
  1. Dove vivi, dove hai vissuto e dove vorresti vivere?

Vivo a Cantù, un paese famoso per il mobile e l’artigianato in provincia di Como circondato dal verde, da montagne e laghi. Sono stata diverse volte a Parigi e devo dire che è una città in cui mi piacerebbe vivere forse un giorno, ma l’Italia ha per me qualcosa di speciale. Non ho mai sentito la necessità di lasciare il posto in cui sono nata o provato un senso di insoddisfazione legato ad esso. Sono convinta che in un fazzoletto di terra si possa avere e trovare il necessario per alimentare il proprio destino.

  1. Qual è secondo te l’opera d’arte più significativa degli ultimi 20 anni e perché?

Non penso esistano opere significative in assoluto, proprio per il carattere soggettivo legato all’arte. Penso invece esistano opere che più di altre sanno comunicare al pubblico. L’installazione di Ai Weiwei “The law of the journey” mi colpì profondamente. Ebbi la fortuna di vederla dal vivo alla Galleria Nazionale di Praga  nel 2017, rimasi attonita. La reputo significativa perché esce dalle logiche commerciali e dalle “trovate ad effetto” che oggi vanno tanto di moda, inoltre l’artista si schiera apertamente dalla parte dei rifugiati e ne denuncia le condizioni. Non è tanto l’aspetto sociale che mi colpì quanto la grandiosità, l’imponenza e l’eleganza, la straordinaria forza comunicativa legata ad una estetica semplice e diretta, i materiali poveri come la gomma, i rifugiati senza volto e questo mare invisibile dove il pubblico cammina ignaro senza rendersi conto di essere in fondo al mare.

  1. Quali sono secondo te i tre artisti emergenti attualmente più interessanti?

L’italiano Nicola Samorì, l’americana Tschbalala Self e il rumeno Adrian Ghenie.

  1. Quali sono i tuoi testi critici di riferimento?

I testi critici che hanno ispirato, supportato la mia ricerca sono quelli di Gilles Deluze, Le interviste a Francis Bacon di David Sylvester, i saggi di Didi-Huberman, “l’essere e il nulla” di  J.P Sartre e i saggi di Susan Sontag. Amo ampliare la mia ricerca con letture di diversa natura: saggi di psicologia, libri di poesia, romanzi.

  1. Dove e come lavori? Hai bisogno di determinate condizioni per entrare nel processo creativo?

Il mio studio si trova a Carugo e occupa quella che era un tempo l’ ex bottega del mio bisnonno paterno. Ogni volta che metto piede in studio non riesco a non pensare a questo legame che continua ad unirci a distanza di anni. Il tavolo da falegname che ho ereditato mi ricorda da dove provengo. Per creare qualsiasi cosa ho bisogno di aver qualcosa da dire, da volere comunicare o inscenare. La solitudine è la condizione fondamentale che mi permette di esternare quello che ho dentro. Amo chiudermi in studio durante il processo creativo e tendo a non mostrare mai “ad esterni” nulla che sia non-finito o di cui non sia pienamente convinta. Sono molto gelosa del processo creativo e consapevole di quanto possa essere semplice distruggerlo o intaccarlo. Progetto i miei lavori mentalmente, ogni giorno il mio cervello archivia migliaia e migliaia di immagini che poi traduce in collage mentali. Quando passo all’azione devo essere in una condizione psicofisica particolare, devo sentire di essere pronta. Vivo periodi di grandissima produttività che si alternano a periodi di distacco e rifiuto. Fare arte è sempre stata per me una necessità e come in tante cose ho bisogno di sentirne la mancanza per continuare a dare, a quello che faccio, lo stesso valore a distanza di anni.

  1. Lavori in maniera istintiva o progetti preventivamente le tue opere?

Il mio modo di lavorare è sempre stato connotato da una progettazione accurata che va di pari passo agli stimoli che ricevo ogni giorno: libri, persone, viaggi, eventi. Ultimamente cerco invece di lasciar maggior spazio al lato più istintuale e sperimentale che penso sia una parte fondamentale del lavoro di un’artista: pianifico meno e mi lascio trasportare. È importante fare opere brutte, fa parte del processo creativo, talvolta può capitare che da tentativi e prove si resti piacevolmente sorpresi; e da lì inizia la svolta. Sono convinta che l’opera d’arte sia il risultato di una somma di casi fortuiti.

  1. Che ruolo ha l’invisibile nella tua produzione?

L’invisibile nella mia produzione coincide con il “simbolo” ed è tutto ciò che può essere percepito, intuito ma non “scritto”. Mostro ma non dico, i livelli di lettura sono molteplici i rimandi simbolici, iconografici a volte sono dichiarati apertamente, altre invece appena accennati. L’invisibile non è mai assenza, ma si traduce in una “presenza diversa” che può essere sentita, percepita in modi diversi. Questo sentire in arte equivale alla “presenza” di cui parla David Sylvester commentando i quadri di Francis Bacon o Deleuze nel libro “Francis Bacon. Logica della sensazione” dove analizza il rapporto tra pittura e sensazione o lo stesso Bacon che parla di questa forza invisibile che lo spingeva a rendere l’immagine “immediatamente reale”. È l’aura che rende un’opera viva e che fa emozionare, chi la osserva.