HIDEBEHIND

di Caterina Frulloni

“Hidebehind” è letteralmente “ciò che si nasconde dietro” e che per sua natura, sempre ci sfugge. È un concetto che spaventa, tanto che nel folklore popolare degli abitanti del Minnesota e del Wisconsin assume i caratteri di un enorme mostro oscuro, dotato di artigli ferini, abituato a nascondersi alle spalle delle proprie vittime, laddove ad esse non è concesso vedere. Lo “Hidebehind” abita ciò che strutturalmente, per una beffa della nostra stessa fisiologia, non ci è dato esplorare né controllare: quella porzione sempre cieca, ombrosa, a cui non possiamo mai rivolgere lo sguardo.

Eppure, quelle sezioni nascoste, endogene, sono all’origine degli intrecci che compongono l’universo figurativo di Matteo Giuntini e, nella loro parziale emersione, ne costituiscono l’essere. In dialogo diretto con una consuetudine artistica secolare che trova in Emilio Isgrò il proprio rappresentante più maturo, la pratica della cancellazione, della trasformazione pittorica per stratificazione è sempre stata cifra essenziale della tecnica dell’artista, che a partire dal ripensamento, dall’errore riusciva a sviluppare formalmente le sue opere. Ora però le sovrapposizioni, gli “hided behind”, assumono una valenza narrativa nuova: il punto di partenza è un dipinto già completo che viene stravolto, nascosto progressivamente dietro a imprevedibili esiti che si dispiegano in concatenazioni insospettate e immaginifiche. È un motore narrativo quello che Matteo Giuntini vuole mettere appunto, un’archeologia del nascosto, a cui un fruitore attento deve tendere l’orecchio per cercare di ricostruire per immagini il racconto assurdo rappresentato dall’artista. Giuntini sceglie la forma dell’alterazione con consapevolezza, delineando una storia del «nascosto» tutta da rintracciare, attraverso labirinti animali e vegetali, dove le metamorfosi tra gli esseri danno origine a bestiari straordinari, accompagnate da segni graffitici a tratti primitivi. La potenza del meccanismo trasformativo, che lascia intravedere solo in parte i mutamenti sottostanti, arricchisce ed esalta la semantica dell’opera, costituendosi in un gioco di allegorie che lanciano i loro rimandi in interpretazioni surreali. La cancellatura che stravolge il dipinto non è mai atto distruttivo, ma ne consacra la rimessa in discussione. La sua identità resta in fieri: non è mai scontata, mai definitiva, ma accetta quella spontaneità straordinaria propria della creazione artistica. Così in “La fotosintesi del fiore reciso” dagli steli verdi fioriscono volti, ma su uno di essi viene dipinta con decisione una testa feroce di lupo, interposta tra segni scuri e arcaici, cuneiformi, quasi a rivelare la curiosità stessa dell’artista nella sovrapposizione tra la belva e la maschera umana. È così che la trasformazione ribalta il punto di vista dei protagonisti della tela, consacrando il racconto a una delle sue infinite capacità rappresentative.

Il rimando alla subcultura del graffitismo e alle tele di Basquiat viene condotto a esiti discordanti e insieme sorprendenti, dove l’artista sovrappone l’uso di pennellate pesanti ma morbide, elementari e arcaiche, a un contesto decorativo quasi favolistico, contraddistinto da colori pastello e dall’uso ricorrente del rosa. Anche i giochi di corrispondenze tra immagini e parola scritta – di forte matrice surrealista – che Giuntini inseriva nelle sue produzioni precedenti, qui vengono meno, assorbiti dai richiami allegorici delle figure, seppur rievocati nei titoli triviali dei dipinti. Le immagini che popolano le tele riemergono da inconsci collettivi lontani, dai bestiari medioevali e dalla naïveté delle pitture dei primitivi e ricordano, nelle forme floreali delle stelle e nelle sembianze compatte dei cani-lupi, le produzioni di disegni e carte sviluppata da Kiki Smith dopo il Duemila. All’aspetto mitico dei caratteri si accompagna una certa melancholia narrativa, che riconduce alla potenza visiva del Neoespressionismo tedesco di Georg Baselitz, ma anche alle cromie figurative di Sigmar Polke. Anche l’affezione dell’artista per le rappresentazioni stilizzate e nel contempo personali delle incisioni negli “Ex voto” sembra riemergere nei macrocosmi dei dipinti; ed ecco che in “Fusaggine” braccia e mani di fattura infantile tendono sospese a una fiamma dalla forma vegetale. D’altronde però una caratteristica essenziale che i titoli stessi delle opere invitano a non trascurare è la costante dimensione di ironia e gioco, che tramuta ogni opera in un teatrino dell’assurdo e rimarca l’origine e i natali livornesi dell’autore.

L’accostamento parola-immagine, che prima attraeva il fruitore a smarrirsi nel selvatico labirinto dell’artista, viene ora assorbita dall’universo di significati che le figure suggeriscono, padrone indiscusse delle feste dei folli che il pittore evoca. Così si delinea una sorta di paradossografia illustrata che è Giuntini stesso a raccontare, dove svariate cose mirabili danno vita a un bestiario dell’incredibile, composto da nuove creature fantastiche, aliene dal senso comune. Specie commiste, intersecate e sovrapposte, appartenenti a più regni e generi, insieme animali e vegetali, uomini che germogliano da steli e donne con zampe bestiali. C’è il coccodrillo “Meringo”, nero come la notte, con il corpo coperto di rosee squame simili a mammelle e sorretto da tre grandi zampe; il branco di cani simili a lupi rampanti ne “Il tappeto borghese di casa” e il grande pipistrello “S. Piero” che tra filari di cipressi con il suo manto volante porta in bocca un rametto di ulivo. L’universo che ne risulta è fantastico e democratico, a tratti primordiale e libero, dove il maschile e il femminile, l’uomo e la bestia, le stelle e le piante sono protagonisti attivi delle stesse narrazioni e si alterano, sovrapposti l’uno con l’altro, ibridando i loro attributi e le loro qualità caratteristiche. I regni della poetica dell’artista sono costellati da fenomeni straordinari, dietro a cui si snodano personaggi magici e celati, che all’unisono si sottraggono alle leggi razionali del mondo a cui siamo abituati. Interminabili poi sono le combinazioni e gli accoppiamenti possibili tra gli esseri, governati da potenze sovrannaturali e arcaiche che infrangono i limiti tra spirito e natura, tra il mondo fisico e la realtà psichica dell’artista.

Ciò che resta certo è che di fronte agli “Hidebehind” nascosti e furtivi del linguaggio pittorico di Giuntini non possiamo esimerci dal provare il sentimento antico della meraviglia, né fare a meno di smarrirci con ingenuità nei suoi mondi liberi e impossibili.