CAOS. L’EQUILIBRIO DELLA PITTURA

di Vera Canevazzi e Caterina Frulloni

Nella mitologia greca Chaos è un’entità spaziale e materiale insieme, è la personificazione del vuoto, del nulla, è la precondizione al tutto, alla creazione e quindi all’ordine, come scriveva il poeta Esiodo. Chaos è un abisso, che determina il costante pericolo di caduta in una dimensione primigenia di nebulosità informe e oscura. Allora come difenderci? Dove trovare uno scudo che ci protegga dalla confusione imperante del mondo?

È alla pratica della pittura che spetta una missione salvifica: un’uscita dal nero, un tentativo sempre nuovo di plasmare e manifestare un piccolo mondo. L’artista è un demiurgo che affronta ogni volta la stessa catabasi: valica l’oscurità dell’abisso per tornare alla luce, alle forme e ai colori della tela; «attraversa una catastrofe o un’illuminazione, e lascia sulla tela la traccia di questo passaggio, di questo salto che lo porta dal caos alla composizione”, come leggiamo nel testo di Félix Guattari e Gilles Deleuze, Che cos’è la filosofia?

Nell’opera d’arte l’agitazione viene domata e, imprevedibilmente composta, si ammansisce sulla tela a formare un caosmos, un’unione simbiotica di ordine e caos, imprescindibili l’uno dall’altro. La risultante è un’armonia sempre nuova, dettata dal passaggio inevitabile di quell’imponderabile raggio di caos che ci permette di riconoscere nelle opere d’arte l’inatteso, lo straordinario. La contemplazione del vuoto è allora un momento necessario tanto all’artista, che deve portare all’esistenza forme nuove, quanto all’osservatore, che in un mondo in cui vige il primato dell’immagine deve essere in grado non di vedere, ma di guardare, con l’ingenuità infantile di chi osserva ogni opera come un microcosmo a sé.

È a partire da queste premesse che all’interno della mostra vengono illustrati tre esiti figurativi dissimili, tre diverse poetiche che con il caos vengono a patti in modo alternativo e complementare. Ciò che ne deriva è un dialogo particolare che riflette insieme sulla genesi oscura, sempre sfuggente del processo creativo e sulla necessaria razionalizzazione che conduce ognuno dei tre artisti all’espressione della propria individualità.

Accomunati da un passato nella scena underground anni ’90 della propria città natale, tra skateboarding, graffitismo e punk rock, Guido Bisagni alias 108, Matteo Giuntini e Antonio De Luca possiedono affinità creative particolari e il bisogno irrinunciabile di connettere la pratica artistica con la musica, che diventa tramite, talvolta musa ispiratrice di contenuti.  

Le opere di 108 (Alessandria, 1978) conservano il sapore del graffitismo e delle avanguardie storiche per spingersi oltre, verso una dimensione più profonda, inesplorata, che elude le forme e le leggi della geometria euclidea. Le voragini nere e primordiali vengono addomesticate in forme aniconiche, soglie attraverso cui il pittore riesce a intravedere l’abisso, e da esso, faticosamente ritorna. La materia che porta in scena è ibrida, sospesa tra il tempo e lo spazio, sinonimo di una tensione inesplicabile a cui soltanto l’arte può tendere. Le forme morbide e impreviste di quei portali oscuri testimoniano il percorso travagliato della loro genesi, il ripensamento, poi la deviazione impulsiva del processo creativo e l’intimo legame dell’artista con esso.

Nelle opere in mostra, dalle Pietre della vita alle serie di Oropa, l’uso del colore è ridotto al minimo: la profondità irrazionale del nero invade le carte per provare a raccontare la storia di un luogo dove i culti mistici si intrecciano ai misteri cristiani, e gli elementi scuri nelle opere alludono ora alla vergine nera di Oropa, ora alle pietre miracolose del suo santuario. L’attenzione di 108 alla dimensione spirituale dell’arte si fonde al suo interesse per l’antropologia e le filosofie delle religioni, dove la dimensione mitica si confonde con il portato culturale e spirituale dell’umanità.

Matteo Giuntini (Livorno, 1977) dipinge una realtà parallela di ironica allusione, dove un caotico rinvio di significati attesta la plausibilità di un mondo implausibile.

Il suo universo surrealista unisce allegorie e simboli che spesso dettano semantiche peculiari, dove le immagini interagiscono sul significato originario delle parole per dare origine a una narrativa dinamica. Scritte come Agave, Fiore o Aglio suggeriscono così letture fuorvianti, spingendo l’osservatore a mettere in moto un processo interpretativo. Se da un lato l’autore suggerisce un racconto, dall’altro lo nasconde: lavorando per stratificazioni e cancellazioni egli lascia così traccia del proprio processo creativo.

Eppure, nei mondi figurativi che Giuntini traccia a ritmo di musica, non si può ignorare lo straniamento dell’artista né esimersi dal rispettare le regole del gioco che lui detta. Il mondo appare sotto un altro sguardo, più democratico e libero, popolato di personaggi ibridati che abitano senza gerarchie le tele con piante e strani animali. È una sorta di saturnale verace e potente, dove si sente di toccare l’intimità dell’artista e di riacquisire allo stesso tempo purezza e sincerità mentre ci si perde nelle sue selve umane e vegetali. Anche l’osservatore deve ammettere il caos per poter partecipare alla sfida creativa che Giuntini instaura, perché per destreggiarsi nel suo labirinto non bisogna mai abbandonare la fruizione attiva e la riflessione.

Antonio De Luca (Pompei, 1977) ricerca incessantemente un equilibrio formale che dalle figure della natura lo accompagni alla visione di bellezze perfette.

Creature delicate di acquerelli e olii, sospese tra il mondo onirico e l’orientalismo accompagnano l’osservatore verso una dimensione eterea e sovrasensibile, lontana dai turbamenti caotici e dalle brutture del reale. Le figure, quasi evanescenti, sono appena delineate tramite veloci tratti pittorici che attraversano fondali vuoti e neutrali, privi di caratterizzazione e per questo ancor più lontani dalla pienezza disorientante del quotidiano.

Le serie delle Sculture su carta, accostate dall’artista in mostra alle sue eteree figure, rivelano ancora una volta la tensione verso il raggiungimento dell’armonia assoluta, scegliendo come soggetti proprio le statue antiche che l’estetica classica annoverava come i prodotti formalmente ineccepibili della storia dell’arte.

Armonia e perfezione che non rimangono tuttavia chiusi all’interno di una composizione, i cui limiti sono segnati dall’area della tela o del foglio, ma che si estendono nello spazio circostante tramite piccole estensioni di ceramica che connettono l’opera al contesto ambientale. Così le figure impalpabili si introducono cautamente nel mondo dello spettatore, permettendo al mondo dell’immaginazione e a quello della realtà di unirsi e fondersi.